Webinar “La Gestione delle strutture sanitarie nell’emergenza Covid”: la relazione dell’avv. Fatigato

L’avv. Michele Fatigato

BISCEGLIE, 9 giugno 2020 – Di seguito, la relazione dell’avv. Michele Fatigato nel webinar sulla Gestione delle strutture sanitarie nell’emergenza Covid, organizzato nei giorni scorsi da FFT-Fatigato Follieri Teta ed Universo Salute Opera Don Uva. L’incontro caratterizzato da grande partecipazione, ha confermato il notevole interesse da parte della Società nei confronti della formazione e della divulgazione scientifica.

Covid-19 e gestione delle assenze dal lavoro: l’equiparazione alla malattia della quarantena e all’infortunio della positività al virus nel D.L. Cura Italia convertito.

Sommario: 1. L’art. 26 del D.l. 18/2020 e la quarantena con sorveglianza attiva o permanenza domiciliare fiduciaria. – 2. “L’occasione di lavoro” per l’accesso alla tutela INAIL °° . – 3. Il documento tecnico INAIL del 22 aprile 2020 e il rapporto con il protocollo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro del 14 marzo 2020, spunti per l’adozione di un efficace modello organizzativo aziendale.

  1. L’art. 26 del D.l. 18/2020, conv. in L. 27/2020, e la quarantena con sorveglianza attiva o permanenza domiciliare fiduciaria. – Nell’ambito della complessa normativa emergenziale emanata per far fronte alla diffusione del corona virus nel territorio italiano, il D.L. 18/2020, all’art. 26, comma 1, ha previsto espressamente, per i soli lavoratori del settore privato[1], l’equiparazione, ai fini del trattamento giuridico ed economico, dell’assenza del lavoro per la quarantena o per permanenza domiciliare fiduciaria (in entrambi i casi con sorveglianza sanitaria attiva) alla malattia, precisando, altresì, che la stessa non debba essere computata ai fini del periodo di comporto.

Per una compiuta comprensione del testo normativo, occorre premettere che, ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 1 dell’ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020 ed all’art. 1, comma 2, lett. h) ed i) del D.L. 6/2020, sono collocati in quarantena con sorveglianza attiva, su iniziativa delle Autorità Sanitarie territorialmente competenti, per quattordici giorni, i cittadini entrati in contatto stretto[2] “con casi confermati di malattia infettiva diffusiva” (soggetti risultati positivi al Covid-19) e sono collocati in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva coloro che abbiano fatto ingresso in Italia dopo aver soggiornato nelle zone di maggiore diffusione del virus, come individuate dall’OMS; si tratta, dunque, di individui non direttamente affetti dal virus, ai quali, a scopo precauzionale e di contenimento del contagio, viene fatto obbligo di permanenza presso il proprio domicilio.

All’indomani dell’entrata in vigore dell’ordinanza del Ministero della Salute, ci si è subito posti il problema di come considerare, nella gestione dei rapporti di lavoro, l’assenza del dipendente in quarantena obbligatoria o in isolamento domiciliare fiduciario e, dunque, assente dal lavoro per provvedimento vincolante della pubblica autorità[3].

In assenza di una disciplina speciale ed in applicazione dei principi generali del diritto delle obbligazioni, l’assenza avrebbe dovuto essere qualificata come impossibilità sopravvenuta parziale ratione temporis a rendere la prestazione lavorativa per causa non imputabile, ai sensi dell’art. 1464 c.c., con conseguente sospensione del sinallagma contrattuale e, dunque, anche dell’obbligo di pagamento della retribuzione e di versamento dei contributi previdenziali[4].

Proprio per ovviare ad una conclusione di questo tenore, essendo l’assenza del dipendente non imputabile e, soprattutto, funzionale all’interesse pubblico del contenimento del contagio, il legislatore è intervenuto con una norma, l’art. 26, comma 1, D.L. 18/2020, che, sostanzialmente, pone a carico delle casse dello Stato tale assenza, equiparandola, appunto, alla malattia.

Il legislatore ha dovuto adoperare il meccanismo dell’equiparazione, con riferimento “al trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento”, in quanto il lavoratore “in quarantena”, come correttamente rilevato[5], non può essere considerato in malattia nel senso tradizionale, ovvero affetto da un evento patologico da cui derivi l’impossibilità temporanea all’espletamento dell’attività lavorativa, trovandosi, di fatto, semplicemente in una situazione di impedimento all’uscita dalla propria abitazione per fatto non imputabile.

Presupposto per l’operatività dell’equiparazione, ai sensi dell’art. 26, comma 3, D.L. 18/2020, è la redazione e la trasmissione al datore di lavoro della certificazione di malattia redatta dal medico curante con l’espressa indicazione del provvedimento di collocazione in quarantena o in permanenza domiciliare fiduciaria emesso dall’operatore di sanità pubblica ai sensi degli artt. 1, comma 2, lett. h) ed i) del D.L. 6/2020, ed 1 dell’Ordinanza del Ministero della Sanità del 21 febbraio 2020.

La stessa disciplina dell’equiparazione alla malattia, ai fini del trattamento economico, deve essere estesa anche all’ipotesi del dipendente assente dal lavoro a causa dei provvedimenti di contenimento o di divieto di allontanamento dal proprio territorio, adottati dai Presidenti delle Regioni o dai Sindaci, nell’ipotesi in cui il luogo di lavoro si trovi al di fuori del territorio stesso; in questo caso, a differenza delle ipotesi di quarantena ed isolamento domiciliare, come chiarito dal Ministero del Lavoro, per beneficiare della equiparazione economica alla malattia, il lavoratore non deve nemmeno a produrre al datore di lavoro alcuna certificazione medica, essendo sufficiente, ai fini della sussistenza del diritto alla suddetta equiparazione, l’emanazione e la vigenza del provvedimento autoritativo[6].

In ragione dell’equiparazione alla malattia, ai fini del trattamento economico, al lavoratore che si trovi in una delle condizioni sopra analizzate (quarantena, obbligo di permanenza domiciliare o divieto di spostamento dal proprio territorio), spetta non solo l’indennità che normalmente è a carico dell’Inps (mediante il meccanismo dell’anticipazione e successivo conguaglio), ma l’intero trattamento economico che, secondo il CCNL applicato al rapporto di lavoro, deve essere garantito al dipendente assente per malattia, compresa, dunque, l’integrazione che, normalmente, è a carico del datore di lavoro; in questa ipotesi speciale, tuttavia, ai sensi dell’art. 26, comma 5, D.L. 18/2020, in deroga alle disposizioni vigenti, tutti gli oneri (sia quelli del datore di lavoro che quelli dell’Inps) restano integralmente a carico dello Stato.

La norma in esame, infine, prevede espressamente che l’assenza per quarantena o permanenza domiciliare, trattata ai fini economici come malattia, non sia conteggiata ai fini dell’eventuale superamento del periodo di comporto, così equiparandola, di fatto, al ricovero ospedaliero[7].

Dalle fattispecie normativamente tipizzate della quarantena obbligatoria e dell’isolamento fiduciario domiciliare deve essere tenuta distinta l’ipotesi della c.d. quarantena volontaria del dipendente che decide, di sua sponte, di non recarsi in azienda per il timore di contrarre il virus o di averlo contratto e di poter contagiare i colleghi.

In questo caso, il lavoratore deve certamente essere considerato assente non retribuito, non avendo assolto al proprio obbligo di rendere o di offrire al datore di lavoro la prestazione lavorativa, con conseguente venir meno dell’obbligo sinallagmatico normalmente gravante su quest’ultimo di corrispondere la retribuzione (quale controprestazione). Il datore di lavoro, inoltre, potrebbe considerare l’assenza ingiustificata e, dunque, disciplinarmente rilevante, qualora ritenesse insufficiente la motivazione addotta dal dipendente per giustificare la sua permanenza domiciliare a scopo di prevenzione[8].

L’art. 26, comma 2, D.L. 18/2020 prevede, invece, espressamente l’equiparazione al ricovero ospedaliero dei periodi di assenza prescritti dalle competenti autorità dei dipendenti pubblici e privati affetti da grave disabilità ai sensi dell’art. 3, comma 3, L. 104/92 ovvero in possesso di certificazione, rilasciata dai competenti organi medico legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti di patologie oncologiche o terapie salvavita.

Con riferimento a questa disposizione normativa, ci si limita ad evidenziare che, in assenza di iniziativa da parte del lavoratore, il datore di lavoro mentre è direttamente a conoscenza della sussistenza della condizione di “disabilità grave”, in quanto destinatario della relativa documentazione, e, dunque, in ossequio agli obblighi di prevenzione e tutela dell’integrità psico-fisica del dipendente di cui all’art. 2087 c.c. ed al D.lgs. n. 81/08, può procedere, sua sponte, a sospendere la prestazione lavorativa; nel caso dei lavoratori immunodepressi l’unico soggetto che potrebbe essere a conoscenza della patologia è il medico competente, che, tuttavia, soggiace all’obbligo di riservatezza.

In queste ipotesi, per il datore di lavoro, potrebbe essere opportuno, al fine di prevenire situazioni di grave rischio per la salute dei dipendenti, rendersi parte proattiva e richiedere al medico competente di comunicare quali siano i lavoratori a rischio, così da procedere alla loro sospensione, facendo prevalere la tutela della salute (individuale e pubblica) di cui all’art. 2087 c.c. sul diritto alla riservatezza dei dati[9] ovvero, quantomeno, invitare i propri dipendenti a comunicare tali informazioni, esortandoli, se necessario, a farsi rilasciare la certificazione prevista dalla norma in esame[10].

  1. L’occasione di lavoro” per l’accesso alla tutela INAIL°° . – Come noto, per poter qualificare un evento come infortunio sul lavoro, secondo il D.P.R. n. 1124/65 è necessaria la presenza di due condizioni: la causa violenta e l’occasione di lavoro. La “causa violenta” è qualunque azione, operante in danno altrui, tale da produrre lesioni all’organismo umano; più precisamente essa rappresenta un’azione di qualsiasi natura che abbia i requisiti di esteriorità (in quanto deve provenire dal mondo esterno), di idoneità lesiva (essendo in grado di provocare lesioni tali da determinare la morte o un’inabilità assoluta o parziale) e di concentrazione cronologica (nel senso che deve agire in un tempo ristretto, convenzionalmente indicato nel turno giornaliero di lavoro)[11]. L’infortunio può essere determinato da una causa unica o da un concorso di cause. Il concorrere di concause preesistenti, simultanee o sopravvenute non esclude l’indennizzabilità dell’infortunio che è integralmente risarcito in proporzione all’entità del danno causato o concausato.

L’articolo 42, comma 2, del D.L. Cura Italia, sotto questo profilo, stabilisce che, nei casi accertati di infezione da coronavirus, in “occasione di lavoro”, l’evento morboso ed il conseguente periodo di quarantena o permanenza domiciliare fiduciaria devono essere trattati come infortunio sul lavoro.

Con riferimento al primo dei due requisiti necessari per qualificare un evento come infortunio sul lavoro, la norma, dunque, conferma espressamente l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, che prevede, da un punto di vista tecnico-giuridico ed assicurativo, l’equiparazione tra causa violenta, comune a tutti gli infortuni, e causa virulenta, costituita dall’azione di un evento patogeno infettivo[12], quale il nuovo Coronavirus.

La disposizione normativa in esame si colloca, dunque, sulla scia dell’orientamento giurisprudenziale consolidato che considera operante la tutela Inail in caso di affezioni morbose, avvenute in occasione di lavoro che derivino da un agente patogeno estrinseco di natura virulenta e con le Linee Guida per la trattazione dei casi di malattia infettive e parassitarie di cui alla Circolare Inail n. 74 del 23 novembre 1995[13].

La stessa INAIL, con la recente circolare 3 aprile 2020[14], ha chiarito che le affezioni morbose da Coronavirus avvenute “in occasione di lavoro” sono riconducibili all’infortunio sul lavoro e non alla malattia professionale e come tali devono essere istruite e trattate in sede amministrativa per tutti i lavoratori assicurati all’Istituto[15].

La problematica fondamentale, dunque, con riferimento alla riconducibilità della positività all’infortunio sul lavoro, riguarda la verifica della sussistenza del requisito della “occasione di lavoro” [16], in cui devono essere ricomprese, secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del lavoratore[17].

L’Inail, nella suddetta circolare, ha chiarito che, nella situazione di pandemia in corso, l’ambito della tutela riguarda, innanzitutto, gli operatori sanitari[18] esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico, con conseguente operatività, nei loro confronti, della presunzione semplice iuris tantum di origine professionale, in ragione, appunto, della elevatissima probabilità che tale categoria professionale venga a contatto con il nuovo coronavirus.

In sostanza, in questi casi, la tutela da infortunio sul lavoro viene riconosciuta al lavoratore in presenza della sola affezione da Covid-19, in quanto si presume l’esistenza del requisito della occasione di lavoro, salvo prova contraria che dimostri, con certezza, che il contagio sia avvenuto per ragioni estranee all’attività lavorativa.

L’Inail, inoltre, estende l’operatività della suddetta presunzione semplice anche ad altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza, quale elemento di esposizione ad un elevato rischio di contagio, facendovi rientrare, in via esemplificativa: i lavoratori che operano in front-office, alla cassa, gli addetti alle vendite/banconisti, il personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi. Anche per tali figure, dunque, vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.

Le ipotesi in cui l’Inail ritiene presumibile l’origine professionale del contagio non esauriscono, tuttavia, il campo di applicazione della tutela da infortunio sul lavoro, potendo la stessa operare negli altri casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare, ai fini dell’accertamento medico-legale, la presunzione semplice. In questi casi, precisa l’Istituto, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può, comunque, presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento connesso all’attività lavorativa (in cui, dunque, l’affezione virulenta rappresenta, in astratto, un semplice rischio generico di malattia)[19], grava sul lavoratore un consistente onere probatorio in ordine alla contrazione della patologia in occasione lavorativa e l’accertamento medico-legale dovrà seguire l’ordinaria procedura, privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale. In particolare, in queste ipotesi, il dipendente che sostenga la dipendenza dell’infermità da una causa di servizio ha l’onere di dimostrare la riconducibilità dell’affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento dell’attività lavorativa, con una prova, quantomeno in termini di probabilità, ancorata a tangibili e specifiche situazioni di fatto, inerenti le mansioni svolte, le condizioni di lavoro e la durata e l’intensità dell’esposizione a rischio[20]. Per assolvere all’onere di provare l’esistenza del nesso di causalità tra l’ambiente di lavoro e l’infezione virulenta, il lavoratore ad esempio, potrebbe dimostrare la presenza in azienda di altri colleghi positivi al Covid, l’assenza di contagi tra i suoi familiari, la limitazione della frequentazione al solo ambiente lavorativo, oltre a quello familiare, l’utilizzo, per recarsi a lavoro, di mezzi pubblici particolarmente affollati, etc.[21] Nell’ipotesi in cui l’Istituto assicurativo non riconosca la sussistenza della causa violenta e, dunque, non qualifichi l’evento come infortunio sul lavoro, il lavoratore può proporre ricorso amministrativo e, in caso di rigetto, il ricorso giudiziario[22].

Ciò chiarito con riferimento alle condizioni di accesso alla tutela Inail[23], per quanto concerne l’oggetto e alla portata, occorre precisare che, da un punto di vista temporale, la stessa riguarda sia il periodo di affezione dalla patologia sia, dopo la negativizzazione, il periodo di quarantena causato dalla malattia (non il periodo di quarantena per scopo sanitario di cui al paragrafo 1.che, invece, è escluso).

Ne consegue, quanto alle prestazioni erogabili, che, in queste ipotesi, gli assicurati possono ricevere dall’Inail l’indennizzo del periodo di invalidità temporanea conseguente alla malattia (indennizzabile con l’indennità di inabilità temporanea) e dei postumi permanenti di danno biologico (indennizzati in capitale o con rendita in caso di postumi superiori al 16%).Infine, nel caso in cui la malattia abbia causato il decesso dell’infortunato, i superstiti avranno diritto all’assegno funerario ed alla rendita ex art. 85 TU.

L’art. 42, comma 1, D.L. 18/2020 chiarisce, altresì, che gli eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del decreto Interministeriale 27 febbraio 2019.

In sostanza, alla luce della evidente difficoltà di verificare, con margini di certezza apprezzabili, che l’infezione sia stata contratta in occasione dell’espletamento dell’attività lavorativa, il legislatore ha precisato che gli infortuni da Covid-19 non incrementino il tasso medio di assicurazione e, dunque, non aggravino, per il datore di lavoro, il costo dell’assicurazione.

Per quanto concerne, infine, la questione dell’eventuale responsabilità del datore di lavoro per il danno differenziale[24], quale conseguenza della violazione delle norme in tema di infortunio sul lavoro, è sufficiente evidenziare che, rispetto ad essa, trovano applicazione le ordinarie regole di ripartizione degli oneri di allegazione e prova[25] e, dunque, che, stante la eziologia multifattoriale dell’evento patogeno in esame, permanga, in ogni caso, in capo al lavoratore-attore, l’onere di allegare e provare l’esistenza del danno lamentato, la nocività dell’ambiente o delle condizioni di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro[26], in termini di ragionevole probabilità ancorata a concrete e specifiche situazione di fatto connesse alla prestazione lavorativa[27]. Le stesse regole operano anche con riferimento alle azioni di rivalsa (regresso e suurroga) di cui agli artt. 10 e 11 d.p.r. 1124/1965 dell’Inail per le prestazioni liquidate in favore del lavoratore assicurato, come chiarito dallo stesso Istituto con il messaggio n. 22 del 20 maggio 2020[28].

  1. Il documento tecnico INAIL del 22 aprile 2020 e il rapporto con il protocollo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro del 14 marzo 2020 (aggiornato il 24 aprile 2020), spunti per l’adozione di un efficace modello organizzativo aziendale°°. – Il rischio del proliferare della responsabilità in caso di contagio da Covid-19 e quello conseguente di paralisi delle attività produttive ha fatto emergere, da più parti, l’esigenza di individuare regole e procedure certe che, se adottate, permettano una efficace prevenzione della diffusione del contagio e, dunque, possano limitare i rischi connessi all’espletamento delle attività imprenditoriali.

In quest’ottica, già nel corso della c.d. Fase 1, il Governo, le organizzazioni sindacali confederali e le parti sociali hanno sottoscritto, in data 14 marzo 2020, un protocollo condiviso, finalizzato proprio alla tutela della sicurezza sul lavoro ed alla prevenzione della diffusione del contagio, a cui sono seguiti numerosi protocolli riguardanti i singoli settori merceologici[29].

Il protocollo fonda sul convincimento secondo cui la modalità preferibile di gestione del contenimento del contagio nella fase emergenziale sia quella condivisa tra datori di lavoro e rappresentanti sindacali dei lavoratori (con l’avvallo del Governo) in fase di individuazione delle misure, in fase di aggiornamento delle stesse e nella fase di controllo della loro osservanza.

La condivisione rappresenta certamente un valore positivo per entrambe le parti del rapporto di lavoro, in quanto permette ai lavoratori, quali principali destinatari delle misure di prevenzione, tramite i loro rappresentanti, di esprimere le proprie valutazioni circa l’efficacia operativa delle misure, ed ai datori di lavoro di adottare dei protocolli di azione che non siano unilateralmente elaborati e la cui idoneità, in termini di prevenzione, sia stata vagliata preventivamente anche dai rappresentanti dei soggetti destinatari della tutela, elemento di grande utilità in caso di eventuale successivo coinvolgimento in un’azione di responsabilità da contagio[30].

L’ultimo DPCM succedutosi nel corso dell’emergenza ancora in atto, peraltro, condiziona la possibilità di riprendere e/o proseguire l’attività produttiva all’adozione ed al rispetto del protocollo in esame, che ne diviene uno degli allegati[31].

Il suddetto protocollo, rivolto alle imprese attive anche nel corso del lockdown, prevede, quali misure principali di contenimento del contagio: l’informazione e la formazione di tutti i lavoratori sulle misure di precauzione e sull’utilizzo dei dispositivi anticontagio, la regolamentazione delle modalità di ingresso ed uscita dal luogo di lavoro, al fine di evitare assembramenti, le regole per la sanificazione igienizzazione e pulizia di tutti gli ambienti, degli strumenti e delle postazioni di lavoro, le regole di igiene personale, l’individuazione dei dispositivi di protezione individuali idonei a prevenire il contagio, la promozione di modalità di organizzazione del lavoro tali da ridurre al massimo il numero di lavoratori presenti contemporaneamente (utilizzo di smartworking, di ammortizzatori sociali, di ferie e permessi, rimodulazione delle postazioni individuali al fine di rispettare il di distanziamento sociale, etc.), il divieto o la limitazione, allo stretto necessario, mediante severa regolamentazione, delle attività “a rischio” (riunioni fisiche,  spostamenti interni, eventi e formazione), le modalità di gestione delle positività riscontrate in azienda ed il potenziamento delle funzioni delle figure interne ed esterne utili alla prevenzione (medico competente, RSPP ed RLS).

In attesa della riapertura graduale delle aziende e degli uffici (cd. Fase 2), il protocollo è stato aggiornato dalle parti stipulanti, in data 24 aprile 2020, attraverso l’inserimento di alcune misure connesse alla ripresa di numerose attività produttive e, dunque, all’incremento degli spostamenti di persone; la novità di maggiore impatto è la possibilità di sospensione dell’attività, sino al ripristino delle condizioni di sicurezza, per le imprese che non adottino in modo efficace le misure contenute nel protocollo condiviso, sanzione prevista espressamente, come detto, anche dal DPCM 26 aprile 2020.

Proprio in vista della riapertura, anche alcune grandi imprese hanno sottoscritto un protocollo specifico con le organizzazioni sindacali confederali, al fine di adattare il più possibile le misure generali al tipo di attività espletata ed al proprio contesto organizzativo[32].

Al fine di fornire un ulteriore supporto in termini di chiarezza rispetto alle misure efficaci a prevenire la diffusione del contagio sui luoghi di lavoro, l’INAIL, in data 23 aprile 2020, ha pubblicato il “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione”, al fine di “fornire elementi tecnici di supporto al processo di decisione politica” in previsione anche di un possibile aggiornamento al Protocollo condiviso sottoscritto dalle parti sociali in data 14 marzo 2020 che di fatto sta per essere elaborato proprio in vista della fase due.

Il documento tecnico è composto da due parti.

La prima parte si sofferma sulla la predisposizione di una metodologia innovativa di valutazione integrata del rischio di contagio da Covid-19, che tiene in considerazione la possibilità di venire a contatto con fonti di contagio nell’espletamento dell’attività lavorativa, a causa della prossimità connessa ai processi lavorativi ovvero per l’aggregazione sociale, anche verso soggetti esterni.

La seconda parte è, invece, dedicata all’adozione di misure organizzative, di prevenzione e protezione, nonché di lotta all’insorgenza di focolai epidemici, anche in considerazione di quanto già contenuto nel Protocollo del 14 marzo 2020.

Per quanto concerne il rischio da contagio da SARS-CoV-2 in occasione di lavoro, l’INAIL prende in considerazioni tre variabili:

– l’“esposizione”, ovvero la probabilità di venire in contatto con fonti di contagio nello svolgimento delle specifiche attività lavorative (es. settore sanitario, gestione dei rifiuti speciali, laboratori di ricerca, ecc.);

– la “prossimità”, ossia le caratteristiche intrinseche di svolgimento del lavoro che non permettono un sufficiente distanziamento sociale (es. specifici compiti in catene di montaggio ovvero postazioni fisse su grandi impianti industriali) per parte del tempo di lavoro o per la quasi totalità;

-la “aggregazione”, connessa alla tipologia di lavoro che prevede necessariamente il contatto con altri soggetti esterni all’azienda (es. ristorazione, commercio al dettaglio, spettacolo, alberghiero, istruzione, ecc.).

Sulla scorta della combinazione delle predette variabili, l’INAIL stima il rischio di contagio – in relazione alle diverse tipologie di attività – in quattro classi: basso, medio-basso, medio-alto ed alto.

In tale prospettiva, al Documento è allegata una tabella che illustra le classi di rischio per alcuni dei principali settori lavorativi[33].

La seconda parte del documento dell’INAIL si sofferma, invece, sulle concrete misure da adottare per prevenire il rischio di contagio sul posto di lavoro, la cui intensità varia a seconda della classe di rischio in cui deve essere collocata la tipologia di attività.

L’istituto, sotto questo profilo, ritiene giustamente indispensabile il coinvolgimento di tutte le figure della prevenzione aziendale, medico competente, RSPP, RLS/RLST, nel coadiuvare il datore di lavoro nel continuo monitoraggio circa l’effettiva e responsabile attuazione delle misure stesse.

In particolare, le misure da adottare sono classificate in tre distinte categorie:misure organizzative, misure di prevenzione e protezione e misure specifiche per la prevenzione dell’attivazione di focolai epidemici, che, in sostanza, richiamano e valorizzano le indicazioni già contenute nel Protocollo del 14 marzo 2020.

Con riferimento alle misure organizzative, risultano particolarmente interessanti alcune valutazioni effettuate dall’istituto circa gestione degli spazi di lavoro, attraverso l’indicazione di soluzioni innovati, al fine di ridurre il contatto sociale, in ambienti ove operano necessariamente una pluralità di lavoratori, “l’introduzione di barriere separatorie (pannelli in plexiglass, mobilio, ecc.)” tra le diverse postazioni di lavoro, comunque, tra di loro adeguatamente distanziate.

In tema di organizzazione e orario di lavoro, l’INAIL giudica positivamente e suggerisce, anche in relazione alla Fase 2, l’utilizzo delle diverse forme di lavoro a distanza (lavoro agile, telelavoro, etc.).

Sotto questo profilo, tuttavia, l’Istituto, superata la prima fase di urgenza, evidenzia la necessità di rafforzare le misure per la prevenzione dei rischi connessi a questa tipologia di lavoro, in particolare fornendo assistenza nell’uso di apparecchiature e software, nonché degli strumenti di videoconferenza, ed “incoraggiando a fare pause regolari”.

In relazione poi agli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro e rientrare a casa (commuting), per quanto concerne l’utilizzo di mezzi di trasporto pubblico, l’INAIL sottolinea la necessità di evitare le aggregazioni sociali, suggerendo l’adozione di concrete misure organizzative, quali ad esempio l’elaborazione ragionata di “piani di mobilità adeguati”, contenenti la disciplina dell’uso dei mezzi pubblici o l’incentivo di forme di trasporto sul luogo di lavoro alternative, anche con il mezzo privato.

In ogni caso, all’interno dei mezzi pubblici si raccomanda, oltre al distanziamento sociale, l’uso di mascherine per tutti gli occupanti.

Fra le misure di prevenzione e protezione individuate dall’Inail, si rivelano particolarmente utili quelle concernenti la sorveglianza sanitaria dalla tutela dei lavoratori fragili.

Sotto il primo profilo, in via generale, nella tutela della salute e sicurezza dei lavoratori in questa fase di emergenza, l’INAIL attribuisce, condivisibilmente, un ruolo centrale al medico competente, prevedendo il coinvolgimento di tale figura “al di là dell’ordinarietà” ed in funzione di supporto consulenziale, tanto da suggerirne la nomina ad hoc, in via straordinaria, anche nelle aziende in cui, ordinariamente, non ne è obbligatoria la presenza.

In alternativa, l’Istituto esorta l’adozione di soluzioni alternative, “anche con il coinvolgimento delle strutture territoriali pubbliche (ad esempio, servizi prevenzionali territoriali, Inail, ecc.) che, come per altre attività, possano effettuare le visite, magari anche a richiesta del lavoratore”[34].

In quest’ottica, al medico competente è attribuito un ruolo centrale soprattutto per l’identificazione dei soggetti fragili (come anticipato nel paragrafo 1) e per il reinserimento lavorativo, privo di rischio, di soggetti con pregressa infezione da Covid-19.

Con riferimento a tali ipotesi, l’INAIL sottolinea che i dati epidemiologici mostrano una maggiore fragilità nelle fasce di età più elevate della popolazione nonché in presenza di alcune tipologie di malattie cronico degenerative (ad es. patologie cardiovascolari, respiratorie e dismetaboliche) che, in caso di comorbilità con l’infezione, possono influenzare negativamente la severità e l’esito della patologia.

In un’ottica di prevenzione di questi soggetti più a rischio, l’Istituto consiglia l’introduzione di una “sorveglianza sanitaria eccezionale” con riferimento ai lavoratori con più di 55 anni ed ai lavoratori al di sotto di tale età “che ritengano di rientrare, per condizioni patologiche, in questa condizione anche attraverso una visita a richiesta”.

Per tali lavoratori, in assenza di copertura immunitaria adeguata (utilizzando test sierologici di accertata validità), l’INAIL ritiene possa essere espresso un giudizio di “inidoneità temporanea” o limitazioni dell’idoneità per un periodo adeguato, con attenta rivalutazione alla scadenza dello stesso.

Con riguardo, infine, alle misure specifiche per la prevenzione dell’attivazione di focolai epidemici, l’INAIL, dopo aver richiamato alcune misure già contenute nel Protocollo del 14 marzo 2020 (tra cui il controllo della temperatura corporea e l’impossibilità del lavoratore di accedere ai luoghi di lavoro se la stessa risulti superiore ai 37,5°), precisa che, nelle aree geografiche maggiormente colpite, potranno essere valutate, alla ripresa, misure aggiuntive specifiche “come l’esecuzione del tampone per tutti i lavoratori”.

Alla luce delle considerazioni effettuate e tenuto conto delle diverse tipologie di attività individuate, l’INAIL ritiene, nella conclusione del proprio documento, che le attività produttive con rischio basso o medio-basso potrebbero avere priorità in un processo graduale di rimodulazione delle misure contenitive.

In definitiva, al fine di ridurre al minimo i rischi da contagio e le conseguenti responsabilità civili, penali ed amministrative, sarebbe opportuno che ogni datore di lavoro si dotasse di un complessivo ed adeguato sistema di compliance aziendale, attraverso  il coinvolgimento di tutte le figure interne ed esterne che possano fornire un apporto utile alla sistema di prevenzione (medico competente, RLS, RSPP, etc.), mediante l’adozione, l’attuazione ed il continuo aggiornamento di protocolli e procedure che siano il più possibile condivisi con i rappresentanti dei lavoratori e che recepiscano integralmente le misure contenute nel Protocollo del 14 marzo 2020 (con i relativi aggiornamenti) e le indicazioni fornite nel documento dell’Inail sopra analizzato, adeguandole ed adattandole alle peculiarità ed alle specificità della propria realtà organizzativa, così da tramutare la loro astratta idoneità in efficacia concreta[35].

 

 

 

 

Bibliografia: Allamprese A., Pascucci F., La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore «agile», in RGL, 2017; Pascucci P., Delogu A., Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, a cura di G. Santoro-Passarelli, 2017, UTET Bartolomei F., voce Ordinanza (dir. amm.), dell’Enciclopedia del diritto, vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, 970; Cavallo Perin R., Potere di ordinanza e principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità ed urgenza, Milano, Giuffrè, 1990; Delogu A., Obblighi di sicurezza: tutela contro gli infortuni e le malattie professionali nel lavoro agile, in Il lavoro agile nella disciplina legale collettiva ed individuale, in WP. CSDLE Masimo D’antona, a cura del G.g.g.S., 6/2017; Giannini M. S., Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compi. cass. civ., vol. XXVII, 1948; Giubboni S., Covid-19: obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 417/2020; Giubboni S., Infortuni sul lavoro e responsabilità civile: vecchie e nuove questioni in tema di danno differenziale, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 397/2019;

Martone M., Lo smart working nell’ordinamento italiano, in DLM, 2018, II, e in Liber amicorum  di Giuseppe Santoro-Passarelli, Giurista della contemporaneità, 2018, II, Giappichelli; Mazzotta O., Diritto del lavoro e categorie civilistiche Relazione, in G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto del lavoro e categorie civilistiche, Torino, 1992.; Mortati C., Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Padova, Cedam, 1975, 715; La Peccerella L., Infezione da coronavirus e tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, in DSL, 1/2020; La Peccerella L., Romeo L., Assicurazione infortuni sul lavoro e malattie professionali, in Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, a cura di G. Santoro-Passarelli, 2017, UTET; Peruzzi M., Sicurezza e agilità: quale tutela per lo smart worker?, in DSL, 2017, Santoro-Passarelli G., Appunti sulla funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro dopo il Jobs Act, in Riv. dir. civ., 2016, 3; Zampini G., Sicurezza sul lavoro e modello organizzativo: quali responsabilità per il datore?, in Lav. giur., 2015.

 

[1]Per i dipendenti pubblici, l’equiparazione della quarantena obbligatoria e della permanenza domiciliare al ricovero ospedaliero era già stata disposta, in precedenza, dall’art. 19, comma 1, D.L. 9/2020, convertito in L. 13/2020, secondo cui: “Il periodo trascorso in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva, o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, dai dipendenti delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dovuta al Covid-19, è equiparato al periodo di ricovero ospedaliero”.

[2] Ai sensi della circolare del Ministero della Salute c. 5443 del 22 febbraio 2020, sono considerati in contatto stretto: ‐ Operatore sanitario o altra persona impiegata nell’assistenza di un caso sospetto o confermato di Covid-19, o personale di laboratorio addetto al trattamento di campioni di SARS-CoV-2. ‐ Essere stato a stretto contatto (faccia a faccia) o nello stesso ambiente chiuso con un caso sospetto o confermato di Covid-19. ‐ Vivere nella stessa casa di un caso sospetto o confermato di Covid-19. ‐  Aver viaggiato in aereo nella stessa fila o nelle due file antecedenti o successive di un caso sospetto o confermato di Covid-19, compagni di viaggio o persone addette all’assistenza, e membri dell’equipaggio addetti alla sezione dell’aereo dove il caso indice era seduto (qualora il caso indice abbia una sintomatologia grave od abbia effettuato spostamenti all’interno dell’aereo indicando una maggiore esposizione dei passeggeri, considerare come contatti stretti tutti i passeggeri seduti nella stessa sezione dell’aereo o in tutto l’aereo). Il collegamento epidemiologico può essere avvenuto entro un periodo di 14 giorni prima o dopo la manifestazione della malattia nel caso in esame.

[3] Si tratta delle c.d. ordinanze contingibili ed urgenti di cui all’art. 32 L. n. 833/1978, espressione del potere autoritativo della Pubblica Amministrazione funzionale alla tutela di beni di rango costituzionale (quale, appunto, la salute) e contengono delle prescrizioni vincolanti per i cittadini, con applicazione di sanzioni in caso di violazione. In generale, sul potere di ordinanza della P.A., cfr. M. S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compi. cass. civ., vol. XXVII, 1948, 388 e ss.;C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Padova, Cedam, 1975, 715; F. Bartolomei, voce Ordinanza (dir. amm.), dell’Enciclopedia del diritto, vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, 970; R. Cavallo Perin, Potere di ordinanza e principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità ed urgenza, Milano, Giuffrè, 1990.

[4] Cfr., in tal sensi, prima dell’emanazione del D.L. 18/2020, A. Maresca, Webinar Covid-19, 11 marzo 2020, 6, Commissione di Certificazione Università Roma Tre; in generale, sulla riconducibilità delle ipotesi di assenza dal lavoro per provvedimenti restrittivi della libertà personale alla fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta parziale ratione temporis a rendere la prestazione, ai sensi dell’art. 1464 c.c., cfr., con riferimento al tema diffuso della custodia cautelare, Cass. 11 aprile 1980 n. 2317, FI, 1981, I, 201; Cass. 14 aprile 1981 n. 2256, GC, 1981, I, 1228, con nota di Pera; Cass. 4 maggio 1982 n. 2780, NGL, 1982, 392; Cass. 15 luglio 1983 n. 4849, RIDL, 1984, II, 508, con nota di Agnesi; Cass. 4 maggio 1990 n. 3690, NGL, 1990, 405; Cass. 9 giugno 1992 n. 1966, LPO, 1992, 2245; Cass. 23 giugno 1992, n. 7668, NGL, 1992, 662; Cass. 9 giugno 1993 n. 6409, MGC, 1993, 1006; Cass. 30 marzo 1994, n. 3118, FI, 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 14. In dottrina,

[5] Cfr., A. Maresca, op. cit., 6.

[6] Cfr., in tal senso, FAQ Ministero del Lavoro 30 marzo 2020.

[7] La determinazione della misura del periodo di comporto è rimessa, dall’art. 2110 c.c., ai CCNL di settore, la pressoché totalità dei quali, nel dettare la relativa disciplina, esclude dal computo i giorni di ricovero ospedaliero.

[8] Cfr., in tal sensi, Fondazione Consulenti del Lavoro, approfondimento del 24.02.2020. Nello stesso senso, Accordo Quadro Covid-19 sottoscritto tra ANEC ed OO.SS. in data 27.02.2020.

[9] Sulla prevalenza della tutela della salute sul diritto alla riservatezza, soprattutto in un contesto emergenziale come quello attuale, cfr. A. Maresca, op. cit.

[10] Anche il Garante sulla Privacy ha confermato la legittimità di un invito generalizzato rivolto ai lavoratori dal datore di lavoro, avente ad oggetto la comunicazione di tutte le informazioni utili per prevenire situazioni di rischio per la loro salute e quella dei loro colleghi (cfr. messaggio del 3 marzo 2020).

[11] All’uopo, occorre sottolineare che l’espressione “causa violenta”, nel corso degli anni, ha subito profonde evoluzioni per il progressivo sviluppo del sistema di tutela infortunistica. In particolare, rispetto al significato originario, che, facendo riferimento al carattere traumatico delle cause meccaniche che costituivano la categoria prevalente di fattori infortunistici, richiedeva una notevole intensità della causa stessa, la nozione attuale comprende qualsiasi fattore presente nell’ambiente di lavoro, in modo esclusivo o in misura significativamente diversa rispetto all’ambiente esterno, e che, agendo in maniera concentrata, provochi un infortunio sul lavoro, ovvero, in maniera lenta, una malattia professionale. Dunque, la causa violenta, richiesta dall’art. 2 del T.U. n. 1124 del 1965, per la qualificazione dell’evento come infortunio, può riscontrarsi anche in relazione allo sforzo messo in atto nel compiere un normale atto lavorativo, purché lo sforzo stesso, ancorché non eccezionale ed abnorme, si riveli funzionale a vincere una resistenza peculiare del lavoro medesimo e del relativo ambiente, avuto riguardo alle caratteristiche dell’attività lavorativa svolta e alla loro eventuale connessione con le conseguenze dannose dell’evento (cfr., in tal senso, Cass. 27 settembre 2013, n. 22257, in Lav. giur., 2013, 1127; Cass. 28 luglio 2010, n. 17649, in Lav. giur., 2010, 1049). Per tutti, in dottrina, cfr. la puntuale e sistematica ricostruzione della tipologia delle cause violente, cfr. A. De Matteis, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2011, pp. 243 ss.

[12] Risulta, infatti, da tempo pacifico che, in ambito previdenziale, l’azione di fattori microbici o virali (che, penetrando nell’organismo umano, ne determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomico-fisiologico) sia da considerarsi causa violenta, per cui l’evento viene protetto dall’Inail come infortunio sul lavoro (si parla anche di “malattia-infortunio”). In tal senso, infatti, si è sempre pronunciata la giurisprudenza di legittimità, sin dalle note sentenze Cass. 3 novembre 1982, n. 5764 del, Cass. 19 luglio 1991, n. 8058 e Cass. 13 marzo 1992, n. 3090. Cfr., nello stesso senso, successivamente, Cass. 11 novembre 2014, n. 23990; Cass. 28 ottobre 2004 n.20941; Cass., 1° giugno 2000 n. 7306.

[13] La causa violenta è stata ravvisata nella causa virulenta di natura biologica sin da una risalente pronuncia in tema di carbonchio della Cassazione del 31 ottobre 1921 (F.F.S.S./Migliori) ed è stata poi prevista ex lege, sempre nel caso del carbonchio, dall’art.2 R.D.1765/1935. L’indirizzo giurisprudenziale era stato accolto dall’Inail già prima della circolare richiamata nel testo, con la Lettera circolare del 1° luglio 1993, relativa alle “Modalità di trattazione dei casi di epatite virale a trasmissione parenterale e AIDS”, dove appunto la causa virulenta è equiparata a quella violenta.

[14] Che ha ripreso, con riferimento agli operatori sanitari, la precedente Nota Inail 17 marzo 2020 “Richiesta chiarimenti malattia-infortunio da Covid-19 (nuovo coronavirus) contratto da operatori sanitari”, in www.inail.it.

[15] Sono destinatari di tale tutela, quindi, i lavoratori dipendenti e assimilati, in presenza dei requisiti soggettivi previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, nonché gli altri soggetti previsti dal decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 (lavoratori parasubordinati, sportivi professionisti dipendenti e lavoratori appartenenti all’area dirigenziale) e dalle altre norme speciali in tema di obbligo e tutela assicurativa Inail.

[16] “Sull’occasione di lavoro” nell’infezione da corona virus, si rimanda a L. La Peccerella, Infezione da coronavirus e tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, in DSL, 1/2020.

[17] Cfr., sul punto, Cass. 17 dicembre 2007 n. 26560, secondo cui: “Nella nozione di occasione di lavoro, di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, n. 2, rientrano tutti i fatti, anche straordinari e imprevedibili, inerenti all’ambiente, alle macchine e alle persone, sia dei colleghi, sia di terzi, e anche dello stesso infortunato, attinenti alle condizioni oggettive e storiche della prestazione lavorativa presupposto dell’obbligo assicurativo, funzionali allo svolgimento della prestazione lavorativa, con l’unico limite del rischio elettivo. Nello stesso senso, Cass. 13 maggio 2016, n. 9913, secondo cui, affinché l’infortunio sia indennizzabile da parte dell’Inail, non è necessario che sia avvenuto nell’espletamento delle mansioni tipiche disimpegnate dal lavoratore essendo sufficiente, a tal fine, anche che lo stesso sia avvenuto durante lo svolgimento di attività strumentali o accessorie. Sia la dottrina che la giurisprudenza di legittimità riconoscono il significato normativo estensivo dell’espressione “occasione di lavoro”. Essa comprende tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del lavoratore. In senso analogo, da ultimo, Cass. 22 maggio 2018, n. 12549. Da ultimo, sottolinea come la tutela contro gli infortuni sul lavoro si sia progressivamente estesa, rispetto all’originaria rilevanza del solo rischio professionale, ricomprendendo anche il c.d. rischio specifico improprio, ossia “non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa” o, finanche, un “rischio generico” come quello della strada, nell’ambito dell’infortunio in itinere (su cui si v. infra, par. 4.), Cass. 14 maggio 2020, 8948.

[18]L’espressione operatori sanitari deve necessariamente essere interpretata in senso estensivo tale da ricomprendere tutti i lavoratori che, prestando la loro attività in strutture sanitarie, siano adibiti a mansioni di cura ed assistenza dei pazienti, vale a dire medici, psicologi, infermieri, OSS, fisioterapisti ed, in generale, tutte le figure professionali raggruppate nelle categorie delle professioni sanitarie assistenziali, riabilitative, tecniche e tecniche della prevenzione.

[19] Cfr., con riferimento alla malaria, C. Cost. 17 giugno 1987, n. 226, ove si legge: “Nel secondo dopoguerra, mediante l’uso del DDT (diclorodifeniltricloroetano), la infestazione malarica, che durava da molti secoli, é stata in pochi anni debellata. Non ha oggi perciò più alcuna ragionevolezza un regime giuridico, che in materia di infezione malarica continui a postulare un rischio generico per gli abitanti, e ad escludere un rischio specifico in occasione di lavoro in circoscritto ambiente infesto, e che provveda alla tutela in caso di morte, e non anche in caso di danno”. In tale sentenza la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 T.U. nella parte in cui non comprende tra i casi di infortunio sul lavoro l’evento dannoso derivante da infezione malarica, ritenendo irragionevole continuare ad escludere dalla tutela l’infezione malarica che certamente oggi non costituisce più un rischio generico per l’intera popolazione, ma un rischio specifico circoscritto ad un ambiente infesto.

[20] Sulla portata dell’onere probatorio gravante sul lavoratore allorquando, come nel caso di specie, l’evento virulento presenti una eziologia multifattoriale, cfr. Cass. 15 ottobre 2014, n. 21825, secondo cui: “In tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali, il dipendente che sostenga la dipendenza dell’infermità da una causa di servizio ha l’onere di dedurre e provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell’affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento delle mansioni inerenti la qualifica rivestita. Ne consegue che, ove la patologia presenti una eziologia multifattoriale, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto e ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio”. Nello stesso senso, Cass. 12 aprile 2019, n. 10331.

[21] In un recente scritto, autorevole dottrina, attraverso una forte valorizzazione della raccomandazione contenuta nei vari DPCM di utilizzare lo smart working quale strumento primario di prevenzione della diffusione del contagio, ritiene che la semplice presenza a lavoro, tramutando il rischio di contagio virulento da generico ad aggravato, possa far scattare il meccanismo di presunzione dell’originale professionale dello stesso (cfr. Giubboni, op.cit., 2020).

[22] L’azione giudiziale in esame è sottoposta, ai sensi dell’art. 112 del D.P.R. 30/6/1965, n°1124, al termine di prescrizione di tre anni, decorrente dalla data dell’evento. Il termine di prescrizione è sospeso di centocinquanta giorni per l’esperimento del ricorso amministrativo presso l’Inail.

[23]Da un punto di vista documentale, il primo periodo del comma 2, del citato articolo 42 ribadisce che, nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore deve predisporre e trasmettere telematicamente la prescritta certificazione medica (prevista dall’articolo 53, commi 8, 9 e 10, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124) all’Inail, che prende in carico e assicura la relativa tutela all’infortunato, ai sensi delle vigenti disposizioni, al pari di qualsiasi altro infortunio. In aggiunta ad esso, occorre acquisire la certificazione dell’avvenuto contagio, in quanto solo al ricorrere di tale elemento, assieme all’altro requisito dell’occasione di lavoro, si perfeziona la fattispecie della malattia-infortunio e, quindi, con il conseguente obbligo dell’invio del certificato di infortunio è possibile operare la tutela Inail. Resta fermo, inoltre l’obbligo da parte del medico certificatore di trasmettere telematicamente all’Istituto il certificato medico di infortunio. In proposito, i datori di lavoro pubblico o privato assicurati all’Inail, debbono continuare ad assolvere all’obbligo di effettuare, come per gli altri casi di infortunio, la denuncia/comunicazione d’infortunio ai sensi dall’articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124e successive modificazioni.

[24] Rappresentato dalla differenza tra l’indennità Inail ed il danno complessivo secondo i canoni della responsabilità civile sul quale, cfr., ex plurimis, in giurisprudenza, Cass. 8 aprile 2019, n. 9744, ed, in dottrina, S. Giubboni, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile: vecchie e nuove questioni in tema di danno differenziale, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 397/2019.

[25] In questo senso, R. Riverso, Vero e falso sulla responsabilità datoriale da Covid-19. Aspetti civili, penali e previdenziali, in Questione giustizia, 19 maggio 2020.

[26] Cfr., ex multis, Cass. 8 maggio 2014, n. 9945 e, più di recente, Cassazione civile sez. lav., 08 ottobre 2018, n.24742.

[27] Cfr. la giurisprudenza citata alla nota 17.

[28] Sull’azione di regresso nel caso di infortunio per Covid-19, cfr., da ultimo, P. Sandulli, A. Pandolfo, M. Faioli, Coronavirus, regresso e danno differenziale. Contributo al dibattito, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 420/2020. In generale, sui presupposti dell’azione di regresso, cfr., in dottrina, G. Marando, Responsabilità̀, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Giuffrè, Milano, 2003; G. Lodovico, Per una rilettura costituzionalmente coerente delle azioni di rivalsa dell’Inail, in RIMP, 2014, 3, I, 611.  In giurisprudenza, cfr., ex multis, Cass. 23 luglio 2018, n. 19511, in Dejure.it.

[29] Tra i più importanti, si segnalano, il protocollo del 19 marzo 2020 nel settore dell’igiene urbana, quello del 24 marzo 2020 nel settore della sanità e quello del 24 marzo 2020 nel settore edile.

[30] In questa ipotesi, infatti, il rispetto del protocollo potrebbe facilitare la prova del rispetto, da parte del datore di lavoro, degli obblighi di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c., rappresentando una concretizzazione e specificazione del generale obbligo di diligenza ivi sancito. Sottolinea lo stretto rapporto tra il contenuto del Protocollo e l’art. 2087 c.c., Giubboni, op cit., 2020. Per una conclusione simile a quella suggerita nel testo, con riferimento al modello organizzativo di cui all’art. 30 D.lgs. 81/08, cfr. G. Zampini,  Sicurezza sul lavoro e modello organizzativo: quali responsabilità per il datore?, in Lav. giur., 2015, 1, secondo cui: “In quest’ottica, il m.o.g. può essere considerato un utile strumento per l’implementazione di tutti gli adempimenti in materia e dunque per la compiuta e qualificata concretizzazione degli obblighi datoriali di protezione e prevenzione finalizzati alla tutela dell’“integrità fisica” e della “personalità morale” dei prestatori di lavoro (art. 2087 c.c.).Il m.o.g., pertanto, se considerato come adeguato strumento di disclosure e razionalizzazione di tutti gli adempimenti datoriali esigibili in materia di sicurezza, può essere apprezzato sul piano probatorio e dell’accertamento processuale e rappresentare, così, un’importante occasione per far finalmente chiarezza nel sistema delle responsabilità relative a tutti gli attori (datori e non) del sistema prevenzionale. Può così ipotizzarsi un positivo contributo del m.o.g. validato per la sdrammatizzazione (se non per il definitivo superamento) dei noti e mai sopiti contrasti giurisprudenziali riguardanti l’art. 2087 c.c. relativi alla ricognizione degli obblighi esigibili ed alla portata dei doveri di aggiornamento tecnologico. In particolare, nel giudizio promosso dal lavoratore per la responsabilità civile del datore di lavoro, l’adozione del modello può servire a circoscrivere nozione e contenuto della responsabilità datoriale che, essendo fondata su fattori organizzativi e gestionali, rischia altrimenti di dilatarsi e di trasformarsi in una forma di responsabilità di tipo latamente oggettivo (o in una responsabilità per “colpa attenuata”). Ciò in contrasto, peraltro, col consolidato orientamento della giurisprudenza lavoristica di legittimità”.

[31] DPCM del 26 aprile 2020. Sulla portata vincolante rafforzata del Protocollo, a seguito del suo recepimento nel DPCM, cfr. Giubboni, op.cit., 2020.

[32] L’esempio più importante è il protocollo sottoscritto in data 9 aprile 2020, da FCA con le organizzazioni sindacali più rappresentative del settore metalmeccanico, nell’ambito del quale viene minuziosamente dettagliato ed adeguato alla struttura organizzativa dell’azienda il contenuto delle misure anticontagio previste dal Protocollo del 14 marzo 2020. Sulla necessità, al fine di ottemperare agli obblighi di cui all’art 2087 c.c., di adeguare il protocollo alle concrete caratteristiche della singola azienda, cfr. Giubboni, op.cit., 2020.

[33]A titolo esemplificativo, nel documento tecnico sono state collocate: I) nella classe di rischio basso, le attività inerenti al settore dell’agricoltura e della pesca; II) nella classe di rischio medio-basso, quelle rientranti nell’ambito dell’istruzione; III) nella classe di rischio medio-alto, gli addetti alle mense e i camerieri; Iv) nella classe di rischio alto, le attività rientranti nei settori della sanità e dell’assistenza sociale.

[34] Le indicazioni fornite dall’Inail sembrano essere state recepite dal Governo che, nell’ultima bozza circolata dell’emanando Decreto legge c.d. “Rilancio”, all’art. 88, rubricato “Sorveglianza Sanitaria” ha previsto proprio forme di sorveglianza sanitaria eccezionali, anche con la nomina temporanea di un medico competente per le imprese che non ne hanno l’obbligo ovvero mediante ricorso alle strutture Inail territorialmente competenti.

[35] Per un approfondimento del tema, si rimanda a P. Pascucci, A. Delogu, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, a cura di G. Santoro-Passarelli, 2017, UTET, 2168 ss.


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