Webinar “La Gestione delle strutture sanitarie nell’emergenza Covid”: la relazione del Presidente Pecoriello

BISCEGLIE, 9 giugno 2020 – (an/AreaComUS) – Si è svolto nei giorni scorsi un interessantissimo webinar sulla Gestione delle strutture sanitarie nell’emergenza Covid, organizzato da FFT-Fatigato Follieri Teta ed Universo Salute Opera Don Uva. L’incontro caratterizzato da grande partecipazione, ha confermato il notevole interesse da parte della Società nei confronti della formazione e della divulgazione scientifica.
Nel webinar, moderato dal vicepresidente di Universo Salute, avv. Luca Vigilante, l’avv. Michele Fatigato e l’avv. Eugenio Erario Boccafurni hanno approfondito alcuni aspetti rilevanti della gestione dei rapporti di lavoro nella fase emergenziale, con focus particolare su smart working, contratto a tempo determinato, infortuni sul lavoro e protocolli anticontagio. E’ intervenuto inoltre il presidente del cda di Universo Salute, dr Giancarlo Pecoriello, che ha parlato della responsabilità civile e penale di medico e struttura in relazione al contagio da covid. L’avv. Adamo Brunetti, dal canto suo, ha parlato del difficile contemperamento tra diritto alla salute e diritto alla privacy nell’emergenza covid. Le conclusioni sono state affidate al Direttore amministrativo, dr Marcello Paduanelli, che ha evidenziato la sfida vinta da Universo Salute per contenere il contagio: un risultato raggiunto grazie all’ormai consueto “gioco di squadra”. Soddisfazione è stata infine espressa dall’avv. Vigilante per l’ottima riuscita dell’iniziativa. 

Di seguito la relazione del Dott. Giancarlo Pecoriello – Presidente del C.d.A. di Universo Salute – in apertura del webinar.

Contagio da Covid: la responsabilità civile e penale di medico e struttura – Il mio intervento che riguarda la responsabilità (civile e penale) degli esercenti le professioni sanitarie e delle strutture (pubbliche e private) nell’ambito delle quali gli stessi operano, in relazione all’attività sanitaria concernente il Covid-19 (malattia infettiva che purtroppo sta affliggendo il mondo a causa del virus Sars-Cov2), si articolerà in due parti:

la prima concerne dette responsabilità nei confronti dei dipendenti e di tutti coloro (anche non dipendenti) che operano nell’ambito della organizzazione delle strutture sanitarie;  la seconda concerne le responsabilità nei confronti delle persone malate (pazienti) che si rivolgono alle strutture sanitarie per diagnosi e cura, stipulando, anche solo di fatto, il cd.contratto di spedalità.

Responsabilità nei confronti dei lavoratori dipendenti ed assimilati – Le fonti normative di carattere primario sono rappresentate dalle disposizioni contenute nel D.L.vo n.81 del 2008 (T.U. per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), dall’art.2087 c.c. (tutela delle condizioni di lavoro), dal D.P.R. n.1124 del 1995 (T.U. delle norme sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), dal D.L.vo n.231 del 2001 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica), dagli artt.589, comma 2, del c.p. (omicidio colposo con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) e 590, comma 3, del c.p. (lesioni personali colpose gravi e gravissime commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), nonché da tutta la legislazione emergenziale emanata dopo il riconoscimento del carattere di pandemia del nuovo Coronavirus. Vi sono poi delle fonti normative di carattere secondario, come le circolari in materia dell’Inail ed i protocolli in materia di misure precauzionali per il contenimento del virus adottati a livello centrale dal governo e dalle associazioni di categoria e sindacali  ed a livello locale dalle aziende unitamente ai sindacati.

Partiamo dalla recente normativa emergenziale ed, in particolare, dall’art.42, comma 2, del D.L. n.18 del 2020 (cd.decreto Cura Italia), che ha espressamente qualificato come infortunio professionale l’infezione da Covid 19 contratta in occasione di lavoro, riconoscendo la relativa tutela indennitaria all’infortunato. Tale disposizione ha destato molta preoccupazione nel mondo delle imprese per il timore che la malattia virale contratta dai propri dipendenti, ritenuta per legge “infortunio sul lavoro” (nonostante la natura generica e non specifica del rischio), potesse dar adito facilmente ad una loro responsabilità sia penale (per i menzionati reati di omicidio o lesioni personali colpose) che civile (per risarcimento del danno), anche in sede di azione di regresso nei loro confronti da parte dell’Inail ai sensi degli artt.10 e 11 del Dpr 1124/1995. Sul punto è però intervenuto l’Inail che, con proprie circolari (l’ultima è la n.22 di qualche giorno fa), ha chiarito che non v’è automatismo tra riconoscimento della indennità previdenziale alla persona che ha contratto la malattia virale Covid 19 in occasione di lavoro ed il riconoscimento di una responsabilità sia penale che civile del datore di lavoro. In particolare, dice sostanzialmente l’Inail, in primo luogo la responsabilità del datore di lavoro richiede la prova che la malattia sia stata contratta in occasione di lavoro (anche se sul punto la legge prevede delle presunzioni, come avviene proprio in relazione alle persone che lavorano nell’ambito di strutture sanitarie, ovvero a contatto con il pubblico, per le quali appunto si presume, salvo prova contraria, che la malattia virale sia stata contratta in occasione di lavoro) e, poi, essa  va esclusa allorchè il datore di lavoro provi di aver adottato tutte le misure precauzionali previste dalla normativa emergenziale, sia quelle di cui al protocollo nazionale del 24 aprile 2020 che quelle di cui ai protocolli aziendali (su cui più specificamente parlerà dopo il Dott.Marcello Paduanelli, direttore amministrativo di Universo Salute Opera Don Uva).

Ovviamente le circolari dell’Inail non sono legge e quindi non possono eliminare del tutto le preoccupazioni del mondo datoriale. E’ per questo che il legislatore, anche a seguito delle pressioni esercitate dalle associazioni datoriali di categoria, si appresta ad introdurre un emendamento al D.L. sulle imprese, che prevede in caso di eventuali contagi piena tutela per i datori di lavoro pubblici e privati che abbiano rispettato i protocolli di sicurezza anti-Covid. L’emendamento chiarisce inoltre che l’impresa adempie all’obbligo di sicurezza previsto dall’art.2087 c.c. con la puntuale osservanza delle prescrizioni contenute nei protocolli. In una eventuale causa civile, trattandosi di responsabilità contrattuale, spetterà al datore di lavoro, per vedere rigettata la domanda proposta nei suoi confronti, provare di aver adottato tutte le misure precauzionali previste con riferimento alle specificità dei luoghi e delle condizioni di lavoro, dopo che però parte attrice abbia provato il rapporto di causalità tra la condotta datoriale e l’evento lesivo costituito dalla contrazione del virus Sars-Cov2 (e ciò a seguito dell’orientamento giurisprudenziale ormai consolidatosi della terza sezione civile della Cassazione che vuole onerato l’attore di tale prova del nesso causale anche nella responsabilità contrattuale). Invece, In un eventuale processo penale promosso per i reati di omicidio colposo o lesioni personali colpose con violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, spetterà all’accusa (P.M.) dimostrare, ai fini della affermazione della penale responsabilità del datore di lavoro e delle altre figure responsabili ai sensi del D.Lgs. n.81 del 2008, la inosservanza delle precauzioni imposte dalla legge e dai protocolli, nonché la sussistenza, al di la di ogni ragionevole dubbio, del rapporto di causalità tra detta inosservanza e l’evento lesivo (prova, quest’ultima, molto difficile, dato il carattere ubiquitario del virus in questione, che si può contrarre in qualsiasi luogo, anche diverso da quello di lavoro, e non si manifesta immediatamente).

Responsabilità amministrativa dell’ente ex D.Lgs. n.231 del 2001 – Ai sensi del citato D.Lgs. n.231/2001, quando uno dei reati previsti espressamente da esso come reato presupposto (e, tra questi, vi sono, ai sensi dell’art.25-septies di detto D.Lgs. 231/2001, i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi o gravissime di cui agli artt.589 e 590 c.p., commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro) è commesso, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, da un organo apicale o anche da persona sottoposta alla direzione o vigilanza di quest’ultimo, l’ente medesimo è assoggettato (normalmente nell’ambito del processo penale cui è sottoposto l’autore del reato) a sanzioni sia di carattere pecuniario che di carattere interdittivo (sospensione dell’attività per un tempo determinato). L’ente è cioè chiamato a rispondere per una sorta di propria colpa di organizzazione che ha reso possibile la commissione del reato. Non risponde soltanto se prova che: a) l’organo amministrativo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato prima della commissione del reato modelli di organizzazione e di gestione (M.O.G.) idonei a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di vigilanza (O.d.V.).

Per quanto concerne più specificamente la responsabilità amministrativa dell’ente a seguito della commissione di uno reati predetti di omicidio colposo o lesioni personali colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, l’art.30 del D.Lgs. n.81 del 2008 prevede un apposito M.O.G. la cui adozione ed efficace attuazione secondo i requisiti prescritti dalla norma comporta l’esonero dell’ente da responsabilità amministrativa.

Orbene, la commissione da parte di un organo apicale o di un dipendente di struttura sanitaria del reato di omicidio colposo o del reato di lesioni personali colpose gravi o gravissime, con violazione delle norme precauzionali previste dai protocolli (nazionali ed aziendali) in materia di Covid-19, espone la struttura sanitaria alla responsabilità amministrativa ex D.Lgs. n.231/2001, se la struttura non ha nominato un Organismo di vigilanza e soprattutto se non ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione e gestione secondo i dettami dell’art.30 del D.Lgs. n.81 del 2008. Al riguardo mi piace evidenziare che Universo Salute Opera Don Uva ha sia nominato l’Organismo di vigilanza che adottato e (quantomeno finora) efficacemente attuato tale modello di organizzazione e gestione.

Responsabilità nei confronti dei pazienti – Nel nostro ordinamento la responsabilità (sia civile che penale) richiede quanto meno la colpa, non essendo previsti casi di responsabilità oggettiva (salvo casi eccezionali).

Relativamente al Covid-19 (come per ogni altra patologia infettiva), la colpa (che ai sensi dell’art.43 c.p. può essere generica, quando si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, e specifica, quando si verifica per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) può riguardare sia un errore diagnostico (configurabile per non aver correttamente e tempestivamente individuato il virus Sars-Cov2 sulla base del quadro clinico del paziente), sia un errore terapeutico (relativo alla esecuzione dei trattamenti finalizzati a guarire il malato), sia un errore o una omissione attinenti al contenimento del virus, cioè alla adozione delle misure precauzionali  (isolamento del paziente, sanificazione ambientale, disinfezione degli strumenti medici riutilizzabili, utilizzo di camici, mascherine e occhiali protettivi etc.) atte ad evitare che lo stesso si diffonda contagiando altre persone.

Sotto l’aspetto penalistico, relativamente agli esercenti le professioni sanitarie, che incorrono in uno o più dei predetti errori, sia che operino nell’ambito di una struttura sanitaria (come dipendenti o legati da altro rapporto con detta struttura) che individualmente come liberi professionisti, sono astrattamente configurabili, in materia di Covid-19, i reati di: omicidio colposo (art.589 c.p.), che è procedibile di ufficio; lesioni personali colpose (art.590 c.p.), che è procedibile a querela della persona offesa; epidemia colposa (art.452 c.p.), che è procedibile d’ufficio. Trattasi di reati di evento, nel senso che dalla condotta colpevole dell’esercente la professione sanitaria deve derivare (con rapporto di causalità) l’evento lesivo costituito dalla malattia ovvero dalla morte del paziente, ovvero da una epidemia.

La situazione di emergenza e le enormi difficoltà in cui si è trovato tutto il sistema sanitario nazionale per fronteggiare i numerosissimi ed improvvisi casi (anche letali) della malattia infettiva in questione, nonché la novità di quest’ultima e la conseguente mancanza di cure specifiche conosciute, hanno posto il problema se fosse possibile escludere o quantomeno limitare la responsabilità degli operatori sanitari, trovatisi di fronte ad un vero e proprio “tsunami” sanitario.

La legge Gelli-Bianco n.24 del 2017 (che è una legge fondamentale e costituisce l’imprescindibile punto di partenza per ogni discorso in materia di responsabilità sanitaria) ha introdotto nel codice penale l’art.590-sexies, che prevede una causa di non punibilità, limitata però ai soli reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose. Tale disposizione prevede testualmente che “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. Tale norma ha però subito dato luogo a profondi dubbi interpretativi, tanto che pochi mesi dopo la sua entrata in vigore si è resa necessaria una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione penale (sentenza Mariotti n.8770 del febbraio 2018). Tale pronuncia ha ridisegnato i confini applicativi della fattispecie, stabilendo che l’esercente la professione sanitaria potrà essere chiamato a rispondere di omicidio colposo o lesioni personali colpose: 1) se l’evento si è verificato per colpa, anche lieve, da negligenza o imprudenza; 2) se l’evento si è verificato per colpa, anche lieve, da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee guida ufficialmente riconosciute o, in mancanza di queste, dalle buone pratiche clinico-assistenziali; 3) se l’evento si è verificato per colpa, anche lieve, da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; 4) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate.

Pertanto, la causa di non punibilità dei reati in oggetto si ha soltanto se il caso è disciplinato da linee guida ufficiali o buone pratiche clinico-assistenziali e si tratta solo di errore non grave da imperizia che riguardi la fase della esecuzione dell’attività terapeutica.

Ciò posto, pare evidente, a voler seguire la (restrittiva) interpretazione delle Sezioni Unite della Cassazione, che tale causa di non punibilità non potrà mai verificarsi per la colpa medica relativa ai casi di Covid-19, non foss’altro perché, data la novità di tale patologia e la sostanziale mancanza di certezze scientifiche in ordine alla sua cura, mancano allo stato sia linee guida che buone pratiche clinico-assistenziali (la cui sussistenza, come si è visto, costituisce, per il massimo organo giurisdizionale, il presupposto di applicabilità della fattispecie di cui all’art.590-sexies c.p.).

In tale situazione, per venire incontro alle giuste rivendicazioni degli esercenti le professioni sanitarie, con riferimento ai trattamenti sanitari della difficilissima fase emergenziale e fino a quando non si acquisiscano certezze scientifiche circa le cure del Covid-19, sembra necessario o che il legislatore introduca uno scudo penale (con la previsione di una causa di non punibilità quanto meno per i casi di colpa non grave, sulla falsa riga di quanto prevedeva il Decreto Balduzzi del 2012, che escludeva i reati in questione in tutti i casi di colpa lieve, sia da imperizia che da negligenza ed imprudenza), o che la giurisprudenza interpreti l’art.590-sexies c.p. in maniera non restrittiva, ovvero ancora che si accolga la teoria della inesigibilità, che, allorchè non si possa umanamente pretendere nella concreta situazione di fatto una condotta diversa da quella tenuta , esclude la punibilità del reato.

E’ appena il caso di evidenziare che in caso di responsabilità penale degli esercenti le professioni sanitarie che operano per conto di strutture sanitarie, per i reati di omicidio colposo o lesioni personali colpose commessi in danno di pazienti ricoverati nelle strutture medesime in virtù di un contratto cd. di spedalità, non si avrà una responsabilità amministrativa della struttura ai sensi del D.Lgs. n.231 del 2001, che – come si è visto in precedenza – riguarda sì gli stessi reati, ma solo se commessi in danno dei lavoratori dipendenti o altri soggetti ad essi equiparati con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Sotto l’aspetto civilistico del risarcimento del danno cagionato ai pazienti per effetto di condotte colpose riferibili al Covid-19, occorre distinguere la posizione dell’esercente la professione sanitaria da quella della struttura per conto della quale lo stesso opera.

Sempre ai sensi della legge Gelli-Bianco, quella dell’esercente la professione sanitaria (che non sia legato al paziente da un autonomo contratto di prestazione professionale) è espressamente qualificata come extracontrattuale. Ciò comporta che: 1) in virtù delle norme che disciplinano la distribuzione degli oneri probatori tra le parti, è il paziente (o, in caso di morte, i suoi eredi) che agisce in giudizio per il risarcimento del danno a dover provare, oltre al danno (costituito dall’esito infausto del trattamento sanitario) ed al rapporto di causalità tra questo e la condotta commissiva od omissiva dell’esercente la professione sanitaria, anche la colpa di quest’ultimo; 2) l’azione risarcitoria si prescrive nel termine di cinque anni (decorrente dalla verificazione del danno ovvero da quando questo è stato percepito o poteva essere percepito con la ordinaria diligenza).

Con riferimento alla colpa (che, come si è visto in precedenza, può riguardare sia l’errore diagnostico che l’errore terapeutico, che l’errore o la omissione attinente al contenimento del virus), ci si chiede se la situazione emergenziale di notevole difficoltà in cui gli esercenti la professione sanitaria sono stati chiamati ad affrontare il Covid-19 e la incertezza scientifica che connota le caratteristiche e la cura di tale malattia infettiva possa condurre ad attenuare la responsabilità degli stessi, ravvisandola solo nei casi di colpa grave. Al riguardo – salvo eventuali interventi legislativi che potranno disciplinare tale aspetto diversamente e più favorevolmente per gli esercenti le professioni sanitarie, ma che allo stato mancano – si può invocare l’art.2236 c.c., che disciplina la “Responsabilità del prestatore d’opera” e testualmente dispone che “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. Ed invero sicuramente è ravvisabile una speciale difficoltà della prestazione sanitaria costituita dalla somministrazione di una terapia ai malati di Covid-19, atteso che allo stato, come si è detto più volte,  v’è ancora una incertezza scientifica sulle cure da apprestare per tale malattia. Più problematica appare invece l’applicabilità dell’art.2236 c.c. nei casi di errore diagnostico e di errore o omissione attinente al contenimento del virus, poiché in tali casi si potrebbe escludere la “speciale difficoltà” da un punto di vista tecnico della prestazione posto che, nel primo caso (ossia di errore diagnostico), l’infezione da Sars-Cov2 è riconoscibile da sintomi sufficientemente noti, anche se poco specifici, ed accertabile con metodologie di ricerca del morbo in linea di principio affidabili, e, nel secondo caso (ossia di errore o omissione attinente al contenimento del virus) sono ormai note (vedi i protocolli governativi e aziendali adottati) e non difficilmente attuabili le misure di prevenzione atte a contenere la diffusione del virus. Ciò non toglie però che, anche nei due casi appena detti, per le particolari condizioni di difficoltà emergenziale in cui  gli esercenti la professione sanitaria si sono trovati ad operare, la “speciale difficoltà” della prestazione possa essere ugualmente ritenuta sussistente con conseguente limitazione della responsabilità alla colpa grave.

Quanto alle strutture sanitarie, sempre in base alla legge Gelli-Bianco, la loro responsabilità è espressamente qualificata come contrattuale in virtù dell’atipico contratto di spedalità che le lega alla persona che ad esse si rivolge per esigenze di diagnosi, cura e riabilitazione da malattie. Ciò comporta una posizione processuale per il paziente che intende agire per il risarcimento dell’eventuale danno alla salute patito meno gravosa rispetto alla azione risarcitoria esperibile nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, che abbiamo visto essere di natura extracontrattuale (art.2043 c.c.). Ed infatti nei casi di responsabilità contrattuale, l’azione risarcitoria si prescrive nel maggior termine di dieci anni e, ai fini dell’accoglimento della domanda, l’onere probatorio del paziente-attore si limita alla dimostrazione (oltre che del contratto di spedalità) del danno patito (ossia del peggioramento del suo stato di salute ovvero della contrazione di altra malattia) e del rapporto di causalità tra la condotta commissiva od omissiva del personale sanitario e/o della struttura ed il danno verificatosi, incombendo invece alla struttura sanitaria (che intenda chiedere ed ottenere il rigetto della domanda) l’onere di dimostrare, ai sensi dell’art.1218 c.c., di avere correttamente eseguito la prestazione dovuta secondo le (ufficiali) linee guida della materia o le buone pratiche clinico-assistenziali (in poche parole di non essere in colpa), ovvero che l’inadempimento della obbligazione assunta è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa ad essa non imputabile.

La struttura è responsabile non solo per la condotta illecita del personale sanitario di cui si avvale per la esecuzione della prestazione oggetto del contratto di spedalità stipulato con il paziente (cd.responsabilità indiretta o vicaria ai sensi dell’art.1228 c.c., secondo cui “salvo diversa volontà delle parti, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”), ma anche direttamente per fatto proprio ed, in particolare, per “difetto di organizzazione”, che si  può concretizzare quando l’evento avverso occorso al paziente è riconducibile a inadeguatezze o disfunzioni del complesso apparato di strumenti, mezzi, uomini e risorse a disposizione della struttura sanitaria. Il contratto di spedalità intercorrente tra quest’ultima ed il malato obbliga infatti la prima a mettere a disposizione del secondo un contesto organizzativo e strutturale di livello adeguato rispetto a tutte le circostanze del caso concreto, quali la tipologia e le dimensioni dell’ente, il suo bacino d’utenza, le caratteristiche dei servizi prestati dalle strutture affini, lo stato di avanzamento dell’evoluzione scientifica e tecnologica del momento storico (cfr. sul tema la monografia di Mirko Faccioli “La responsabilità civile per difetto di organizzazione delle strutture sanitarie”, Pacini Editore, 2018).

Ciò posto, si deve valutare se, in caso di eventi avversi occasionati dal Covid-19, la responsabilità civile configurabile in capo agli esercenti le professioni sanitarie (alla stregua di quanto prima detto) possa ricadere sulla struttura. Al riguardo va osservato che, trattandosi nella specie di responsabilità indiretta per fatto degli ausiliari ex art.1218 c.c., una responsabilità civile della struttura ricorre solo se ricorre anche una responsabilità del personale sanitario nei termini in precedenza indicati (il che potrà avvenire quando si tratti di errore diagnostico o terapeutico). In particolare non vi sarà responsabilità civile della struttura se, per esempio, ricorrendo la fattispecie di cui all’art.2236 c.c. (speciale difficoltà della prestazione), all’esercente la professione sanitaria sarà addebitabile solo una colpa lieve, nella fattispecie concreta non configurabile..

Se invece l’evento avverso occasionato dal Covid-19 (ad esempio, la diffusione della malattia infettiva all’interno della struttura con il contagio di altri pazienti) è determinato dalla mancata o insufficiente adozione delle misure precauzionali imposte dai protocolli nazionali e aziendali di cui si è parlato in precedenza, allora potrà ricorrere una responsabilità civile della struttura per fatto proprio, ossia per difetto di organizzazione, così come può avvenire per ogni altra infezione nosocomiale. Trattandosi, come detto, di responsabilità contrattuale, per essere esonerata da responsabilità la struttura ha l’onere di provare, ai sensi del citato art.1218 c.c., l’assenza di una propria colpa, ossia di avere adempiuto alla obbligazione di predisporre tutte le misure precauzionali (quelle previste dalla legge e dai protocolli di cui sopra) atte a prevenire o limitare la diffusione del contagio, ovvero che l’inadempimento di tale obbligazione è avvenuto per un impedimento oggettivamente imprevedibile ed inevitabile.

Meritevole di un breve cenno è anche il tema della responsabilità, per eventi avversi occasionati dal Covid-19, dei cd.medici di base, che sono poi quelli che in questa pandemia hanno normalmente il primo contatto con le persone che avvertono i possibili sintomi della malattia in oggetto. Anche per essi si può ovviamente configurare una responsabilità, sia civile che penale, nei termini che sono stati prima indicati, con conseguente estensione della responsabilità civile anche all’Asl di competenza, per conto della quale gli stessi operano (come ritenuto nel 2015 dalla Cassazione).

Alla fine di questa relazione mi piace sottolineare un aspetto del tema della responsabilità sanitaria delle strutture al quale normalmente non si dà quel giusto rilievo che merita. Trattasi del tema della sicurezza delle cure in sanità (e, quindi, anche delle cure in materia di Covid-19), oggetto di previsione da parte della più volte menzionata legge Gelli-Bianco, che, all’art.1, dopo aver stabilito che “La sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività. La sicurezza delle cure si realizza anchei mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative”, sancisce  espressamente che “Alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, è tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale”. Tale (solenne) previsione normativa sta chiaramente a significare che nell’ambito di una struttura sanitaria (sia pubblica che privata) tutti (dagli organi apicali all’ultimo dipendente) hanno un vero e proprio obbligo giuridico (la cui inosservanza è pertanto sanzionabile alla stregua dell’ordinamento vigente) di concorrere (ovviamente secondo le proprie possibilità e mansioni) a porre in essere quelle attività necessarie a prevenire qualsiasi rischio per la salute dei pazienti. Un analogo obbligo giuridico è previsto anche per la prevenzione degli infortuni dei dipendenti e soggetti ad essi assimilati in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. Ed infatti al riguardo gli artt.18, 19,  e 20 del D.Lgs. n.81 del 2008 prevedono espressamente dei precisi obblighi, non solo a carico del datore di lavoro, dei dirigenti e preposti, ma anche a carico di tutti i lavoratori.


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